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Acquedotto Traiano ed Acquedotto Paolo: scoperti ed esplorati sconosciuti tratti dei due acquedotti
L’acquedotto Traiano venne costruito dall’imperatore Traiano nel 109 d.C. e raccoglieva le acque di diverse sorgenti attorno al lago di Bracciano (lacus Sabatinus), sui monti Sabatini. Lungo complessivamente 57 km, raggiungeva la città con un percorso in gran parte sotterraneo lungo le vie Clodia e Trionfale e poi su arcate lungo la via Aurelia, entrando a Roma sul colle Gianicolo, sulla riva destra del fiume Tevere. Dopo la caduta dell’Impero Romano il condotto fu interrotto e riparato più volte, fino ad essere abbandonato intorno al IX secolo.
Delle molte sorgenti le più lontane da Roma si trovavano lungo il Fosso di Grotte Renara, a est di Manziana. Da qui un ramo di acquedotto scendeva verso SE fino alla sponda del lago e lo aggirava in senso orario, intercettando lungo il percorso le acque provenienti dalle altre sorgenti. Un ulteriore ramo di acquedotto traeva origine a SE di Oriolo Romano da quella ricca area sorgentizia, oggi denominata Santa Fiora, che è nota per l’omonimo ninfeo. Questo secondo ramo scendeva è stato sempre genericamente indicato scendere verso il lago e ricongiungersi con quello proveniente da Grotte Renara, secondo un percorso che fino ad oggi non era mai stato identificato né descritto con esattezza. Anche perché fu tagliato in un’epoca imprecisata tra il VI e il IX secolo e mai più ripristinato, a differenza di altri rami dell’acquedotto che furono ristrutturati più volte, in particolare nel XVII secolo da papa Paolo V, quando l’acquedotto completamente ricostruito prese il nome di Acqua Paola.
Dall’estate del 2013 il Centro Ricerche Sotterranee Egeria e l’associazione Roma Sotterranea (Federazione Hypogea, Commissione Nazionale Cavità Artificiali SSI) stanno svolgendo una accurata indagine sul territorio che ha consentito il ritrovamento e l’esplorazione di questo tratto dimenticato dell’acquedotto Traiano. Alle esplorazioni partecipano numerosi tecnici e ricercatori afferenti ai due gruppi e Luigi Manna del Gruppo Cudinipuli.
Le sorgenti della Fiora, dopo un lungo periodo di abbandono e di probabile utilizzo locale, furono impiegate a partire dal 1698 per alimentare Bracciano, attraverso l’acquedotto Orsini – Odescalchi, che raggiungeva la cittadina con un percorso in parte sotterraneo e in parte su arcate e ancora oggi alimentano l’acquedotto moderno di Bracciano. Se le sorgenti della Fiora erano ben note, del condotto che le raccordava al ramo di Grotte Renara si era persa memoria. Vari autori antichi e moderni ne hanno ipotizzato il tracciato ma sempre, come abbiamo scoperto nel corso delle nostre ricerche, con grossi errori di localizzazione: lo stesso Ashby (The Aquaeducts of Ancient Rome, 1935, p. 301) ipotizza, sbagliando, una ripida discesa nella valle del fosso di Fiora fino a Vigna Grande.
Il condotto scende dalla Fiora accostando inizialmente la sponda orografica sinistra del Fosso di Fiora per poi uscirne dirigendosi verso NE, sempre con lieve pendenza, seguendo all’incirca la curva di livello e quindi mantenendosi ben sopra i 300 m s.l. Dopo alcuni km inizia una discesa sempre più ripida verso Vigna Orsini ove si presume si trovasse il punto di raccordo con il ramo proveniente da Grotte Renara. Il percorso è risultato quasi interamente sotterraneo, realizzato a poca profondità, mediante trincea ricoperta. Un solo tratto è visibile sopra suolo, per il superamento di un piccolo fosso, tutti gli altri piccoli corsi d’acqua vengono sottopassati. La stessa cosa doveva avvenire in un punto non più visibile presso la sorgente, in corrispondenza degli impianti moderni dell’acquedotto di Bracciano.
Gran parte del percorso è stato individuato seguendo i pozzi collassati e i tratti residuali della trincea. Ciò che resta dell’acquedotto appare in tutto il suo fascino di opera idraulica “imperiale”, frutto di una tecnologia matura e realizzato con uno standard costruttivo elevatissimo ed uniforme per decine di chilometri. L’intonaco impermeabile è bianco e in perfetto stato, così come l’opus reticolatum dei rivestimenti: se non fosse stata distrutta la struttura sarebbe probabilmente ancora funzionante!
Le ricognizioni speleologiche hanno permesso di acquisire i rilievi topografici e le immagini delle tante porzioni sin qui rintracciate.
Di Carla Galeazzi e Carlo Germani ©EgeriaCRS, Vittorio Colombo ©Roma Sotterranea
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L’acquedotto Paolo fu costruito ricalcando in parte il tracciato del “Aqua Traiana”, per volere di Papa Paolo V per l’approvvigionamento idrico del Gianicolo e della sottostante area di Trastevere, ma in realtà il pontefice mirava soprattutto a poter disporre di una cospicua riserva d’acqua per i giardini della sua residenza vaticana. La struttura del più antico acquedotto traianeo infatti venne in parte distrutta e ricostruita per dar vita all’Acquedotto Paolo.
Gli speleologi del Gruppo Speleo Archeologico Vespertilio sono riusciti ad accedere in un tratto dell’acquedotto Paolo di cui si era persa ogni traccia attraverso un crollo creatosi sulla volta del cunicolo idraulico. Individuato nei boschi del territorio di Bracciano da Elena Felluca del G.S.A.V. questo tratto dell’acquedotto, che non era mai stato oggetto di alcuna ispezione da parte di altri speleologi e quindi inedito dal punto di vista degli studi, risulta ancora attivo e riceve acqua da diverse sorgenti presenti lungo in suo tracciato. La progressione all’interno risulta particolarmente difficoltosa a causa dell’acqua in alcuni tratti particolarmente alta e per alcuni crolli relativi alla volta del condotto.
Si notano all’interno del cunicolo numerosi interventi di restauro, mentre alcuni tratti dell’acquedotto sembrano senza dubbio di epoca romana a conferma che l’acquedotto Paolo ricalca con ogni probabilità il percorso di una delle tante prese di captazione del più antico Acquedotto di Traiano. Le prime ricerche all’interno dei bottini di captazione e delle sorgenti
dell’Acquedotto Paolo da parte degli speleologi del G.S.A.V. risalgono agli inizi degli anni novanta, dove erano stati già individuati una serie di prese di captazione nonché alcuni ponti-condotti presenti nel territorio di Bracciano con targhe in pietra su cui era scritto “aqva pavla”.
Durante le ultime ricognizioni speleologiche sono stati effettuati i rilievi e le foto del manufatto idraulico. Nei prossimi giorni sono previste nuove esplorazioni speleologiche all’interno dell’acquedotto per completare la documentazione tecnica che sarà oggetto di una pubblicazione da parte del Gruppo Vespertilio. Hanno preso parte alle indagini: Elena Felluca, Cristiano Ranieri, Loredana Fauci, Elena Besana, Fabrizio Marincola, Mario Ranieri e Luigi Felluca.
Di Cristiano Ranieri ©Gruppo Speleo Archeologico Vespertilio.
I risultati di entrambi gli studi speleologici sul Traiano e sul Paolo saranno presentati al Congresso Internazionale di Speleologia in Cavità Artificiali “Hypogea 2015” che si terrà a Roma tra il 12 e il 17 marzo 2015.
Mondo di Pietra: si riapre il “caso” Briaglia. Un progetto multidisciplinare torna ad indagare il sottosuolo cuneese.
“Una necropoli di 4000 anni fa scoperta nei pressi di Briaglia” (Secolo XIX); “Riaffiora una necropoli megalitica” (L’Avvenire); “Sensazionale a Briaglia: scoperti i resti di una necropoli ligure di circa quattromila anni fa” (Gazzetta di Mondovì); “Rinvenuti sulle alture del monregalese dolmen, menhir e statue stele” (Gazzetta di Cuneo). Questi i titoli di alcuni giornali dei primi anni del 1970 relativi a presunti ritrovamenti avvenuti nel territorio di un piccolo comune in provincia di Cuneo sulle colline del monregalese: Briaglia.
Da una pubblicazione del 1972: “Dopo tre anni di studi, D’Aquino ed i suoi collaboratori hanno ritrovato i resti di un popolo di cui sino ad ora non si sapeva nulla. Lo studioso ritiene che questi monumenti megalitici siano stati innalzati dalla tribù dei Liguri Bagienni. (omissis) Il dolmen che ho potuto visitare è formato da un lungo corridoio, su cui si aprono un pozzo ed una nicchia, e dalla camera mortuaria. Il tutto scavato artificialmente in un materiale simile al tufo e dipinto in ocra rossa. Il tempo ha ricoperto le pareti con uno spesso strato di incrostazioni calcaree e solo in alcuni punti è possibile vedere la trasudazione dell’ocra. A sinistra dell’ingresso e, come ho detto all’interno, vi sono due pozzi molto profondi. La loro specifica funzione è ancora un mistero, si pensa che possano mettere in comunicazione con un’altra camera mortuaria ad un piano inferiore” (R. D’Amico, “Clypeus”, anno IX n.1 aprile 1972, pagg. 20-21).
In Piemonte vi sono alcuni reperti attribuibili alla cultura megalitica, ma un vero insediamento con necropoli e tombe a camere poteva essere veramente un ritrovamento unico. Archeologia o fantastoria? La ricerca dell’epoca nasceva spinta solo dalla passione di un professore casalese, il prof. Ettore Janigro D’Aquino, lontana dal mondo accademico e senza interessi economici, mossa solo dalla passione e dall’intuizione del ricercatore.
Il professor D’Aquino pubblicò numerosi articoli sulle sue scoperte segnalando, oltre al ritrovamento di numerose pietre, anche quello di alcuni ipogei che lui indicava come “dolmen”. In particolare, lungo la strada che da Briaglia scende ai laghetti, se ne troverebbero due. Uno si trova in località Casnea, con ingresso ad architrave a cui segue un corridoio e due camere, quello richiamato nell’articolo riportato. Qui individuava pitture in ocra rossa e gialla, nonché una pietra circolare con incisa un’arma. Nel 1972 un laureando in ingegneria presso il politecnico di Torino scrisse la sua tesi applicando metodi geoelettrici alla ricerca di cavità sotterranee proprio nel territorio di Briaglia: la sua analisi evidenziò altri cunicoli, stanze e pozzi. Questa tesi oggi è stata ritrovata ed è soggetta ad attenta verifica.
E. Janigro D’Aquino si trasferì a Briaglia riuscendo, con il suo entusiasmo, a coinvolgere tutto il paese. Ricerche e lavori di scavo proseguirono fino all’inizio degli anni Ottanta quando il comune, dopo aver raccolto un notevole numero di presunte stele, dee madri, antropomorfi, zoomorfi e menhir, chiese un parere definitivo alla Soprintendenza.
La risposta della Soprintendenza Archeologica per il Piemonte di Torino, del 21 ottobre 1981, fu però una doccia fredda: “Si porta a conoscenza di codesta amministrazione che la scrivente effettuò tempo addietro un sopralluogo, unitamente al Prof. Carducci, nella località in oggetto, al fine di verificare la natura e l’entità del fenomeno segnalato a questo ufficio quale “complessa manifestazione di megalitismo”. Nel corso del sopralluogo si appurò trattarsi di materiali che non rivestono interesse archeologico, il cui aspetto, talvolta vagamente antropomorfo o zoomorfo, è legato a fenomeni di erosione di origine naturale; se ne consigliò pertanto fino da allora un utilizzo che li riportasse ad una dimensione naturalistico-ambientale, per esempio in un parco pubblico, soluzione ritenuta tuttora valida ed opportuna”.
Lo scalpore iniziale andò scemando, l’interesse mediatico si spense, molte pietre andarono perse, gli ipogei dimenticati ed il professore deluso si defilò da Briaglia con il suo sogno che lo accompagnò fino alla morte avvenuta nel 2005. Sono ormai passati quarant’anni dal clamore dei presunti megaliti briagliesi, al momento attuale ancora storicamente poco sostenibili. Quelle antiche pietre, e quei singolari “crotin” (cantine), oltre ad essere caduti nell’oblio, costituiscono anche per i briagliesi, un ricordo oramai lontano, una “vecchia storia” consumata dal tempo e da una non bella diatriba.
In base a questa premessa, e sulla scorta delle passate ricerche, la giunta comunale di Briaglia ha avviato, con una équipe di associazioni di volontariato culturale, un nuova iniziativa dalle caratteristiche storico-turistiche legate ad un vasto progetto di più ampio respiro dal singolare nome “Mondo di Pietra”.
Il comune briagliese, grazie ad un contributo di una fondazione bancaria, in collaborazione con gli speleologi del “Mus Muris” di Torino, l’associazione Nazionale degli Ingegneri Minerari, il Museo Geologico Sperimentale di Giaveno, il Gruppo Culturale “Filosofare” e la supervisione della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Piemonte, ha riaperto ufficialmente il “caso-Briaglia”.
L’equipe, formata da ricercatori di varia formazione facenti riferimento al dott. Fabrizio Milla, attraverso un progetto redatto il 13 dicembre 2011, si è data come obiettivo primario lo studio ed il recupero del crotin della Casnea, la cavità artificiale già censita nel catasto CA nell’ottobre del 2004 con il numero CA7036 Pi/CN, il piccolo ma suggestivo ipogeo a corridoio interamente artificiale con uno sviluppo di 15 metri, con due camere ed un pozzo interno, scavato in arenarie compatte e riccamente concrezionato.
I lavori hanno avuto inizio il 9 giugno del 2012 e dalle ricerche multidisciplinari condotte nel sito della Casnea sono emersi una considerevole mole di dati che sono stati presentati nel mese di maggio 2013 in due conferenze presso i locali della Confraternita di San Giovanni in Briaglia S.Croce, dal titolo: “L’Ipogeo della Casnea” Sulla via del recupero e “Solis Invictvs” Luce e tenebre nell’ipogeo della Casnea.
Prossimamente, al termine dello studio dei ritrovamenti avuti all’interno dell’ipogeo da parte della Soprintendenza, è in programma un terzo incontro dal titolo “L’Ipogeo della Casnea” Un confronto tra Speleologia e Archeologia.
Al momento, oltre all’impegnativo lavoro che ha portato al recupero della grotta, l’aspetto più eclatante deriva da un riscontro archeoastronomico che riguarda un fenomeno luminoso che si verifica al suo interno in concomitanza con il solstizio d’inverno: spettacolare e ancora in fase di studio ma che lascia poco spazio alla casualità del suo verificarsi. Il fenomeno è sovrapponibile a quello ampiamente documentato di Newgrange in Irlanda e di alcuni dolmen in Bretagna, prestandosi a suggestive ipotesi sull’origine e sull’uso dell’ipogeo che attendono di essere avvalorate dall’indagine archeologica e dal completamento del progetto che contempla anche l’individuazione e lo studio di altri ambienti sotterranei.
Di Fabrizio Milla (Associazione Mus Muris Torino)